a proposito di michele
da TorinoSette (settimanale di La Stampa) misticturistic di Luca Morino (novembre 2003) Salgo, lo sterrato inizia a farsi di sabbia e ciottoli nerastri, dopo pochi minuti rimango in maglietta, nonostante la quota e l’autunno. C’è un discreto movimento che comunque non turba la quiete di un luogo sacro e famoso in tutto il mondo, linfa di miti e tradizioni che hanno nutrito generazioni autoctone e anime migranti. La salita al Vesuvio è una passeggiata senza pretese, in assenza di rischio. L’ultima eruzione risale al 1945 ed appartiene ormai alla memoria dei libri piuttosto che a quella degli uomini. Lascio una monetina ad un signore che noleggia bastoni da passeggio: sono inutili ma fanno parte del rito e se lo trascinano appresso molti visitatori. Il vulcano l’ha disegnato un bambino, un cono verde rovesciato ed un po’ di righe arancioni per rappresentare l’eruzione. Non si può dire Napoli senza dire Vesuvio, tantomeno parlar di Vesuvio senza rotolare, inciampare, cadere, appoggiare la faccia in una fumante e luminosa pizza. Cercando “pizza vesuvio” su internet aprono centinaia di pagine.
Scendo. Forcella, Napoli zona stazione dove Michele è un’istituzione. Fanatici facciamo la fila in tanti, aspettiamo placidamente il turno per mangiare una delle pizze più buone del mondo, ci sediamo seguendo le indicazioni sbrigative ma accoglienti dei camerieri. Se non è l’acqua sarà il pomodoro, o la mozzarella, la farina, il forno! No, forse sono i tavoli di marmo e la disposizione delle vetrine rispetto alla strada, forse è la presenza, sotto sotto, di magmi sulfurei e nutrienti, minerali liquidi e vitalizzanti.
Salgo. Pago i 6 euro per poter compiere il giro del cratere principale, odore di aglio. Nella penombra del retro della biglietteria si intravede un vivace sautè di molluschi, un movimento di guardiani ed altri lavoratori del settore non insensibili all’ora del pranzo. Affacciarsi al Vesuvio porta indietro nel tempo, non rimanda ai dinosauri ma alle stampe che raffigurano bucocliche scene seicentesche, camicie bianche con le maniche a sbuffo, popolane che lavano i panni, pulcinella in maschera e mandolino. Lungo le pareti rocciose scorrono sbuffi di vapore, si avverte un vaghissimo profumo di zolfo.
Tutti sanno che è proprio su queste pendici che vive Amelia la fattucchiera. Supero il ceppo di cemento della vecchia funivia smantellata: il sentiero corre lungo il bordo del cratere, da una parte l’inquietante voragine, dall’altra la texture della città da vedere e poi morire.
Scendo giù. A pochi metri da Michele si trova la pizzeria Trianon che prende il nome dal vecchio teatro ora cinema porno. Le pizze qui sono veramente enormi, sopraffine, e la scelta è vastissima. Mi avvicino al paradiso. Osservo una rappresentazione del grande vulcano fumante e lassù, in un fornitissimo baracchino di souvenirs, compro una ranocchia in lava nera e polvere di grafite che salta giù dal monte e scappa via, forse al centro di una pizza margherita.