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Mancano 6 giorni all'Armageddon contabile americano, a quel 2 agosto 2011 oltre il quale Washington non potrà più indebitarsi in mancanza di un accordo al Congresso sull'innalzamento del limite legale del debito pubblico.

Ma per valutare le dinamiche delle trattative in corso tra Casa Bianca e Congresso, lo stato delle schermaglie politiche tra democratici e repubblicani e i dettagli delle proposte per evitare il fallimento tecnico del governo di Zio Sam bisogna tenere d'occhio un'altra scadenza, più lontana, ma fondamentale: mancano 495 giorni alle elezioni del 6 novembre 2012.

 
 

La partita è politica. L'America non rischia il default. Gli Stati Uniti non sono la Grecia. I mercati non sono preoccupati dall'insolvenza di Washington. Le agenzie di rating scalpitano, ma l'America non ha un problema di liquidità. L'economia non cresce come dovrebbe, ma gli investitori non mettono in dubbio le capacità di pagare gli interessi sui 15.476 miliardi di debito pubblico previsti per la fine dell'anno.
La crisi attuale nasce da una legge del 1917 - assente dai codici degli altri Paesi del mondo, con l'eccezione della Danimarca - che impone al presidente di non superare un certo limite all'indebitamento stabilito dal Congresso. Per risolverla basta un tratto di penna. In passato il tetto è stato alzato con qualche polemica, ma senza problemi, sia durante la presidenza di Ronald Reagan (18 volte) sia negli anni di George W. Bush (7 volte). Nel 2007, l'allora senatore dell'Illinois Barack Obama ha votato contro l'innalzamento del tetto, come oggi minacciano di fare i famigerati deputati dei Tea Party, motivando il suo no alla richiesta di Bush in nome di un rigore contabile molto simile a quello sbandierato oggi dai repubblicani e improvvisamente giudicato anti-patriottico dall'attuale Casa Bianca.

Il tetto al debito è una questione politica e i politici lo sfruttano per segnare punti in vista del ricco monte premi in palio il 6 novembre del prossimo anno.
Questo non vuol dire che il debito pubblico Usa sia una bazzecola né che nel Paese non ci sia un pericoloso irrigidimento ideologico tra repubblicani contrari a nuove tasse e liberal incapaci di rinunciare alla spesa pubblica. Ma a leggere i sondaggi si scopre che gli americani sono interessati ai posti di lavoro, non al debito (secondo Gallup, il 58% degli americani pensa che i problemi principali siano economia e occupazione, mentre solo il 16% cita il debito).

Non è una buona notizia per Obama, imbrigliato dalle manovre parlamentari repubblicane su un tema non stringente, mentre i suoi possibili avversari del 2012 se ne tengono alla larga e sono liberi di accusarlo di aver fatto sparire i posti di lavoro. 
Un rapporto Goldman Sachs prevede che a novembre 2012 la disoccupazione sarà dell'8,8%, un po' meno rispetto al 9,2 di adesso. La speranza di Obama è che gli americani si ricordino della situazione ereditata dal predecessore e si accorgano dell'estremismo dei suoi avversari. L'obiettivo dei repubblicani, invece, è dimostrare che le politiche economiche di deficit spending della Casa Bianca abbiano peggiorato la situazione, visto che ad aumentare è stato solo l'indebitamento, non l'occupazione.

Decisiva sarà la percezione finale della battaglia di questi giorni. Nessuno può prevedere come andrà a finire, anche perché i leader dei due schieramenti non sono certi di poter contare sull'adesione compatta delle proprie truppe. Il piano offerto dallo Speaker repubblicano della Camera John Boehner - rifiutato da Obama, ma non con la minaccia di veto nell'ultimo discorso - non piace all'ala intransigente del suo partito che già oggi potrebbe bocciarlo in aula.